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GIOCO DELLA SABBIA: il divenire dell’invisibile dal visibile

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Il gioco della sabbia:

Per la Psicologia Archetipica la creazione di noi stessi, come qualunque altro istinto creativo, non inizia con la volontà. Ma con l’ascolto di ciò che dentro di noi si muove e chiama e chiede di avere una forma, diventando visibile, in primo luogo, a se stesso. Si tratta di un istinto di conoscenza (intesa come un sapere con se stessi), che parte dalla psiche per tornare riflessivamente alla psiche. Nutrendola delle sue stesse immagini e delle loro manifestazioni. Una necessità, dunque, che passa per la materia, come qualsiasi nuova forma di vita passa per un grembo materno (da mater = madre) che la renda accessibile a una relazione.

Immaginazione materiale:

Si potrebbe quindi parlare, prendendo a prestito una definizione di Gaston Bachelard, di una sorta di immaginazione materiale. Un apparente ossimoro, che tuttavia richiama molto bene l’importanza del figurare un contenuto interno altrimenti indifferenziato. Fornendogli la materia giusta per poter assumere tratti e forme percepibili e conoscibili, le cosiddette immagini, che lungi dall’essere semplicemente dei dati grafici o visivi, si configurano invece piuttosto come un insieme di percezioni, pensieri, idee, emozioni, comportamenti, relazioni, interazioni e identità. Una mediazione, dunque, o forse è meglio dire: una metafora, che richiama più a un dialogo e a una forma di intimità imponente, la quale, oltre a contribuire all’attribuzione di valore alla sostanza (un valore che va oltre ciò che essa stessa esprime, poiché la riconduce direttamente, attraverso un meccanismo di epistrophé, al contenuto in essa nascosto), ha tuttavia insito in sé un rischio fondamentale: quello della confusione tra forma e contenuto.

Il gioco della sabbia come tecnica della psicoterapia del profondo:

È qui che l’inserimento del Gioco della Sabbia, come tecnica specifica nell’ambito di una psicoterapia del profondo, può avere un ruolo importante. Giacché si situa proprio nella terra e sulla terra, e a partire da questa procede verso la psiche.

 

 

Nata dall’intuizione di Dora Kalff (1904-1989), allieva di Carl Gustav Jung, la Terapia con il gioco della sabbia si prefigura, infatti, come un gioco metaforico nel quale, grazie all’utilizzazione delle risorse creative dell’individuo, il lavoro verbale, comunemente associato a una psicoterapia analitico-archetipica, va a intrecciarsi con una (ri)produzione di immagini concretamente visibili e osservabili in quadri estemporanei giocati e messi in scena sulla sabbia. Una tecnica che, già nelle sue premesse iniziali e nei suoi elementi fondamentali (i cosiddetti “strumenti del mestiere”), si prefigura quindi come una trasposizione metaforicamente letteralizzata del processo trasformativo della psiche.

Proviamo a pensarci.

Darsi in immagine e terapia del profondo:

Ogni psicoterapia del profondo, e in particolar modo una psicoterapia analitica o archetipica, ci spinge a confrontarci con quella che può essere considerata la massima dell’Oracolo di Delfi: il cosiddetto “conosci te stesso”. Una massima, per l’appunto, che nasce e spinge dallo stesso desiderio di conoscenza per cui è posta la necessità del darsi-in-immagine. Giacché, come afferma anche Cacciari: comprendere è figurare, dar-figura e percepire tale; comprendere è poter porre-in-immagine.

«L’essere psichico è, in verità, l’unica categoria dell’essere di cui abbiamo conoscenza diretta, poiché nulla può essere conosciuto se non appare come immagine psichica. Soltanto l’esistenza psichica è direttamente verificabile. Se il mondo non assume la forma di un’immagine psichica, è praticamente non esistente».

(C.G. JUNG)

Il ruolo terapeutico dell’immaginazione:

Ci situiamo quindi all’interno di terapie in cui ciò che svolge un ruolo fondamentale è proprio l’immaginazione, intesa sia come possibilità di un contenuto di poter essere posto-in-immagine, sia come possibilità di rendere quella stessa immagine un fattore agente per la trasformazione. Un presupposto partendo dal quale diviene impossibile collocarci in nessun altro luogo fuorché nelle nostre immagini.

Da qui la chiamata, al fine di conoscere noi stessi e il nostro modo di vedere il mondo, proprio a nutrire le immagini, dando voce e liberando la ricchezza che c’è in ognuna di esse, e imparando a permettere alla psiche di guardare se stessa, nelle sue molteplici sfaccettature e senza giudicare, attraverso una modalità immaginale, cioè attraverso un discorso metaforico. Si tratta dell’hillmanina chiamata al FARE ANIMA, un termine non a caso preso a prestito dal linguaggio di un poeta, John Keats (Chiamate, vi prego, il mondo “la valle del fare anima”. Vedrete allora a che serve il mondo), che ben sottolinea la valenza estetica e poetica della psicoterapia. Consentendo, attraverso la formazione delle immagini, di portar fuori un contenuto della psiche e poterlo osservare e lasciarsi commuovere (in quanto imagines agentes) da esso.

La seduzione dell’oggetto nel gioco della sabbia:

Un movimento, quest’ultimo, che rappresenta proprio il presupposto primario del gioco della sabbia. Una tecnica che pone già, di fronte alla psiche del paziente, forme concrete, materiali e terrene, che, come contenitori inanimati, sotto forma di pupazzi, statuine, elementi naturali, immagini sacre e vecchi giocattoli, sono però pronte a essere riempite di contenuti proiettati.

Un’offerta, dunque, quasi una seduzione dell’oggetto, che sembra richiamare alla memoria il pensiero del neoplatonico Plotino, per il quale la reazione che abbiamo di fronte a qualunque elemento del mondo esterno ci colpisca, in un modo o nell’altro sta a indicare che qualcosa, dentro di noi, si muove in risposta a esso.

Il linguaggio simbolico dell’oggetto:

L’idea di base è allora quella di utilizzare questi oggetti per raccontare qualcosa, il più delle volte un sogno. Sospendendo però per un attimo il linguaggio verbale a favore di un linguaggio più nascosto. Un linguaggio che si rifà proprio alla capacità metaforica della psiche. Una sorta di teatro muto in cui il ruolo principale è assunto dalle forme (cioè dagli oggetti) che più che essere passivamente scelti, si fanno attivamente scegliere andando a richiamare l’immaginario psichico che più di ogni altro necessita di mostrarsi a se stesso nel qui e ora. Un linguaggio simbolico, dunque, in grado di catturare, quasi come in un’istantanea, il contenuto immaginale. Rappresentandolo esteriormente così come esso si è costellato all’interno.

Entrare in risonanza con l’oggetto:

Ovvio, non si tratta solo di farsi richiamare dagli oggetti. Ma di entrare in risonanza con essi e attribuire loro uno spazio nel palcoscenico del profondo, abilmente simboleggiato dalla sabbiera. Uno spazio osservando il quale, una volta terminata la prima parte del lavoro, come da uno specchio, si può ricevere indietro uno spaccato solido e concreto della realtà immaginale che vi si cela. Quasi come un’ombra che conferisce spessore e significato all’interno e dietro ogni oggetto. È infatti basandosi proprio su questo metaforico linguaggio che lo psicologo analista lavora. Cercando di facilitare l’osservazione degli immaginari interni, grazie alla lettura non solo della scena giocata e dei personaggi selezionati per giocarla, ma anche esplorando le modalità di costruzione della stessa. Come si struttura? Quale oggetto viene inserito per primo? Da quale punto di vista osserva la scena il suo sognatore? 

 

E così, seguendo le tracce di ciò che l’ha toccata e che le si è rivelato consono, la persona può riconoscere qualcosa di sé in ciò che contempla e ricordarsi di sé. Svegliandosi a se stessa.

Dal visibile all’invisibile nel gioco della sabbia:

Insomma, attraverso i suoi oggetti, la plasticità della sua sabbia, in grado di accogliere tutto ciò che in essa può (in)formarsi, e la sua sabbiera, quale spazio transizionale di scambio tra conscio e inconscio, il Gioco della Sabbia ci consente di svolgere, a partire dalla scena costruita, quel lavoro contro natura di epistrophé che permette di risalire dal visibile all’invisibile. Compiendo a ritroso quello stesso meccanismo spontaneo metaforico che la psiche ricrea e ricerca ogni volta che desidera incontrare se stessa. Tutto questo sotto forma di gioco.

Conclusioni:

Del resto, come dice Schiller: l’uomo è totalmente uomo solo là dove gioca. Il che è come dire che l’uomo diviene se stesso e conosce se stesso, nelle sue infinite sfaccettature, solo nel momento in cui, giocando, tira fuori e manifesta i propri immaginari. Proiettandoli su uno spazio in grado di accoglierli e restituirli a mo’ di specchio. Uno specchio fragile e manipolabile come la sabbia, sì. E a cui si accede tramite l’immaginazione e la componente creativa. Ma uno specchio anche che strappa l’uomo stesso ai vincoli che lo imprigionano nel “nient’altro che”, nelle sue visioni monoteistiche e unidirezionali. E gli restituisce il senso e il valore del variegato e multicolore mondo che lo in-abita.

In altre parole, uno specchio che fa anima.

Dott.ssa Michela Bianconi

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