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Tragedia di Margno

“Prendo il volo”. Tradimento dell’idealizzazione del materno

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“Prendo il volo. Domani avrai grossi problemi”.

È il testo dell’ultimo messaggio che il papà di Margno ha inviato alla sua ex-moglie dopo aver strangolato nel sonno i loro gemelli di 12 anni. Un messaggio atroce, che cela in sé un valore aggressivo e distruttivo che difficilmente può essere disgiunto dalla sua sfortunata destinataria. E che punta dritto proprio là dove il dolore può essere più forte: al dolce cuore di mamma. Già. Perché l’altra vittima di questa brutta e triste vicenda, senza ombra di dubbio, è proprio il materno, brutalmente annientato nel suo bisogno di accudire e di nutrire, proprio attraverso la sottrazione dei figli.

Un tentativo di far luce sulla tragedia:

Ovvio, nessuno mai potrà dirci cosa sia passato realmente nella testa di quell’uomo prima di compiere il suo folle gesto. Da esperte della Psicologia Analitica, detta anche e non a caso Psicologia Complessa, siamo ben consapevoli, infatti, e non ci dimentichiamo mai di sottolinearlo, che ogni psiche è un crogiolo di dinamiche infinite che si attivano, in ogni istante, tra i suoi innumerevoli personaggi. E comprendere queste dinamiche, davvero, è ardua impresa. Sappiamo bene che la verità assoluta di una vicenda psichica probabilmente non la conoscerà mai neppure il suo protagonista, e che, comunque sia, per fare un’analisi, che al più possa avere pretese di verosimiglianza, c’è sempre bisogno del paziente. E scriviamo verosimiglianza poiché la materia psicologica è talmente complessa che sarebbe assurdo pensare di pretendere una verità assoluta che possa spiegare in maniera definitiva e totale un suo atto tanto estremo.

Pertanto il nostro intento, nella stesura di questo articolo, è semplicemente quello cercare di far luce su una possibile lettura di questa tragedia. Partendo dall’amplificazione del messaggio, cercheremo quindi di analizzare uno degli aspetti della relazione con il Materno, inteso sia come figura intrapsichica che come funzione psicologica. Un aspetto che immaginiamo potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale in questa vicenda. 

Ma andiamo per gradi.

Il materno nella stanza del terapeuta:

Nella stanza di un terapeuta giungono molte madri. Ma soprattutto giungono figli. Uomini e donne che, pur essendo già cresciuti, si trovano a confrontarsi con l’ombra del materno. Incastrati e, talvolta, in vero e proprio conflitto, non solo con la persona vera e propria che li ha messi al mondo, ma prevalentemente con il suo fantasma, ciò che chiamiamo “immagine interna”. Tale immagine deriva, solo in parte, dall’esperienza e dalla relazione concreta avuta con questa figura enorme ed enormemente significativa dell’esistenza. L’altra parte origina dal sedimento di tutto ciò che, nel corso della storia dell’umano, è confluito in questo archetipo portante della psiche. Un archetipo che può attivarsi, in maniera totalmente autogena e autodeterminata, anche contro ogni possibilità di controllo, in una delle sue innumerevoli forme e con livelli di potenza inaspettati, pervadendo sia il livello transpersonale e quello transculturale che accomuna tutti attraverso i secoli, a prescindere da quale sia la nostra origine e/o la nostra educazione.

In altre parole, è come se per ogni figlio e ogni figlia che giungono in terapia, arrivassero figurativamente almeno tre mamme: quella concreta, quella personale, interiorizzata sotto forma di immagine, e quella archetipica: il Materno con la “M” maiuscola. Insomma, femminili enormi, tutti affollati e confusi nella mente del paziente. E tutti pronti a dire la propria in faccia all’analista, chiamato a questo punto a mettere ordine in questo pandemonio di potenze immaginifiche.

Il materno nella donna, il materno nell’uomo:

Come afferma C.G. Jung, l’immagine materna si situa a ben diverso livello se chi la esprime è un uomo ovvero una donna (Istinto e Inconscio, pag. 104). Ed è proprio qui che possiamo cominciare a situare il nostro caso specifico. Laddove, infatti, per la donna, conformemente al suo sesso, il confronto con il materno diventa uno snodo evolutivo che può infine condurre al considerare la possibilità effettiva di mettere al mondo un nuovo individuo, per l’uomo, invece, la madre è qualcosa di estraneo di cui fare esperienza, che fin dal principio, ha un significato spiccatamente simbolico, un carattere che rimanda inevitabilmente alla potenza creativa del Femminile. Di qui, continua Jung, la tendenza maschile a idealizzare la madre (Ibidem). Una tendenza che possiede, però, ben celata dentro di sé, una funzione apotropaica segreta: bandire un timore se non un terrore.

La Grande Madre. Il pensiero di E. Neumann:

Nel suo testo sulla Grande Madre, Erich Neumann definisce molto bene questo aspetto, nel momento in cui, parla del carattere elementare del Femminile. Come egli stesso scrive all’inizio del terzo capitolo:

Il carattere elementare del femminile…ha quasi sempre una determinante materna. Di fronte ad esso l’Io, la coscienza, l’individuo, indipendentemente che siano maschili o femminili, sono infantili, privi di autonomia, dipendenti. In quanto funzione il carattere elementare è contrassegnato dal “contenere”. Esso si estrinseca, inoltre, in senso positivo, nell’offrire protezione, nel nutrire, nel riscaldare, in senso negativo attraverso il rifiuto e la negazione (Neumann _ La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, pag. 35).

Per poi proseguire:

Il carattere elementare del femminile e il suo simbolismo esprimono, dal punto di vista energetico-psicologico, la situazione originaria della psiche, che noi definiamo perciò matriarcale. In tale situazione l’inconscio nella sua totalità domina sui singoli contenuti e le singole tendenze. Questa unità dell’inconscio determina tutti i processi psichici in maniera così elevata, che anche l’Io, che è un singolo complesso della psiche, in questa fase non può pervenire all’autonomia; seguendo la legge di gravitazione psichica, esso ricade nell’inconscio o ruota come un satellite intorno a un centro, che appare come Archetipo del Femminile…

Nel carattere elementare la relazione con il bambino dato alla luce viene mantenuta come legame indissolubile tra madre e bambino. Questa partecipation mystique è la situazione originaria che implica l’esistenza di un contenente e di un contenuto. Essa è l’inizio della relazione dell’Archetipo del Femminile con il bambino, e determina anche la relazione dell’inconscio materno con l’Io e la coscienza infantili, finché questi due sistemi non si separano l’uno dall’altro (idem, pag. 37-39).

La sigizia archetipica di Madre e Puer:

Si viene a costellare, alla luce di tutto ciò, una coppia di immaginari (la madre e il bambino), che potremmo quasi definire come una vera e propria sigizia archetipica, giacché non esiste bimbo senza mamma e non esiste mamma senza figlio. Senza un Puer da accudire: l’uno non può esistere senza l’altra è viceversa.

Ed eccoci di nuovo alla storia di Margno. E al messaggio da cui siamo partiti.

“Prendo il volo. Domani avrai grossi problemi”.

Il Puer:

Il volo è una caratteristica tipica del Puer, l’eterno adolescente, a metà strada tra il sognatore e il risolutore di imprese insperate, che ritiene possibile aprirsi qualunque cammino. Il puer solare, energico, creativo e irresponsabile, talvolta egoista e instabile nei rapporti, di cui Jung, nel 1940, parla come di un’esperienza indescrivibile, un’incongruenza, uno svantaggio e una prerogativa divina, un imponderabile che determina il valore o il disvalore ultimo d’una personalità…Il fanciullo è l’abbandonato e l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante.

Si tratta, quindi, di un immaginario legato al movimento, allo slancio entusiastico verso le novità, all’impossibilità di poter essere riportato con i piedi per terra. Un essere che ama la verticalità, che non sa entrare nel tempo e non sa invecchiare, totalmente incapace di vivere il momento presente. L’eterno figlio che sfuggirà sempre dal farsi padre, condannato a restare una figura mancante, in perenne slancio verso un completamento, oppure opponendoglisi strenuamente.

Una figura, dunque, che pur inseguendo furiosamente le novità, resiste al cambiamento, preferendo restare nel proprio status quo. E un fanciullo che vuole, ad ogni costo, restare nel proprio status quo, giocoforza non può evolvere verso l’autonomia. Perciò resta nel perenne bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui, che lo accudisca e lo nutra, pronto a concedergli tutto. In altre parole: una madre.

Quindi, riassumendo:

Per forza il Puer è debole sulla terra, egli non appartiene alla terra. Egli non è destinato a camminare, ma a volare” (J. Hillman)

Il Materno come fonte di vita e di morte.

Ma torniamo a Neumann e alla sua mitica descrizione dell’origine della coscienza e dell’evoluzione individuale. L’autore caratterizza il materno come vita e psiche in uno. Un elemento che nutre e procura piacere, protegge e riscalda, consola e perdona. Il rifugio perfetto per un Io infantile, non ancora autonomizzato, che vede in esso proprio l’oggetto del suo puerile desiderio. Eppure, allo stesso tempo, anche ciò che rischia di dissolverlo e ucciderlo.

È perciò che Neumann descrive il materno come un drago. Contemporaneamente principio di vita e di morte. Ma non sono affatto rare anche le storie che associano questo immaginario alla terra. Materia prima da cui tutto nasce e a cui tutto torna, reinserendosi in quello che, altrove, è stato definito il cerchio della vita. L’esatto opposto dell’aereo bambino di cui abbiamo parlato poco fa.

Un elemento, insomma, che mentre affascina crea timore. E un timore totalmente reverenziale, dato proprio dalla connessione con la morte, cui la psiche del Puer, come afferma Jung, risponde attraverso l’idealizzazione, incrementando così di fatto il proprio desiderio e la propria dipendenza.

Idealizzazione del materno:

E così la madre temuta diventa l’essere perfetto. Il suo valore e le sue qualità vengono esaltate e le sue caratteristiche negative totalmente ignorate, attuando così di fatto una sorta di scissione tra “buono” e “cattivo”, laddove il cattivo perde totalmente di percettibilità. L’altra faccia, esclusa, della medaglia. Una sorta di lato oscuro della luna, perennemente lì eppure invisibile.

Un lato oscuro, fatto di timore e di odio e di aggressivo desiderio di indipendenza, che pende sulla testa del Puer come una magnifica spada di Damocle, pronta a capovolgere la situazione al minimo accenno, da parte del materno stesso, a “tradire” le aspettative del suo pretenzioso bambino.

Immaginiamo allora, di poter descrivere il materno come abitudini, come zona di comfort, o come un rifugio familiare e noto dal quale il Puer non vuole proprio uscire. Insomma: una garanzia assoluta. Maggiore è la rigidità della psiche in cui in cui questo aspetto si situa, maggiore è la possibilità che questo stato di inaccessibilità al cambiamento, operato per il tramite dell’idealizzazione di tutto ciò che psicologicamente è connesso al materno, a ciò che resta uguale se stesso, famigliare, sicuro perché noto, possa creare dei forti squilibri. Soprattutto laddove si paventi la possibilità di un confronto con una qualsiasi situazione nuova, diversa, che rompe lo schema. E, soprattutto, quando la possibilità di mantenere tutto immoto, con la promessa che qualsiasi desiderio venga esaudito dal Materno, non è più garantita. Allora, infatti, ciò che può venirsi a creare sarà un disordine intollerabile, con l’esito, per la personalità rigida, di giungere a compiere anche atti tragici, come nel caso di Margno.

L’idealizzazione tradita:

“È colpa tua se la faccio finita”.

L’idealizzazione tradita si trasforma, infatti, in un aggressivo desiderio di rivalsa. Un aggressivo desiderio di distruzione del materno stesso, perpetrabile solo distruggendo l’oggetto che lo rende tale. E condurrà, di conseguenza, il lato oscuro a imporsi, senza possibilità di mediazione, possedendo il piccolo e finito individuo con stessa la potenza numinosa di un Dio, tipica dell’Archetipo inflazionato.

“Non rivedrai mai più i bambini”.

Il sacrificio del Puer:

Un messaggio che chiede al Puer di essere sacrificato. Un sacrificio, però, che non viene compreso nella sua essenza psicologica, ma letteralizzato. Tragicamente agito con la stessa identica grandiosità con cui ha sempre concepito la propria esistenza. Un epilogo terrificante, che giunge come ultimo atto di una tragica storia ma che tuttavia, a livello intrapsichico, avrebbe dovuto significare tutt’altro. Il sacrifico simbolico del Puer, infatti, avrebbe potuto presupporre l’avvio di un grande cambiamento, se solo fosse stato compreso e accolto per ciò che realmente era: una metafora assolutamente da non prendere alla lettera.

È il bambino intrapsichico quello, infatti, che la psiche chiede di sacrificare. Un sacrificio che per un Puer non può significare altro che crescita. Una risoluzione sana e saggia, che rischia però di trasformarsi in tragedia, laddove ci accingiamo a rispondere alle immagini ignorando il fatto che queste siano solo una delle innumerevoli modalità di espressione che la nostra psiche possiede. E che, come tutto il resto che essa produce (compresi i pensieri e i desideri), è proprio alla psiche che dovrebbero essere restituite, una volta compresone il valore simbolico, restituendo cioè loro la propria portata di senso e il proprio potenziale trasformativo. Quello stesso potenziale che, nello specifico caso del sacrificio del Puer non potrebbe far altro che condurre verso l’evoluzione e la possibilità di diventare adulto, accogliendo il cambiamento per entrare in una vita completa, oltre le routine rassicuranti e le pappe pronte, se non già premasticate, dei nostri infantilismi.

Poetica-mente:

La psiche, dunque, parla simbolicamente, come fanno i poeti. E, come insegna John Perceval: c’invita costantemente a prendere le sue immagini per quello che sono. Metafore, strumenti che, pur agganciandosi al concretismo, vanno oltre questo, travalicando quei rischi di letteralizzazione che lo stesso John Perceval conosceva fin troppo bene. E nei quali il papà di Margno, purtroppo, è, invece, invariabilmente crollato, dando origine a tragedia che, ancora una volta, ci attiva e ci induce a rinominare il ruolo fondamentale che la psicologia e la psicoterapia possono avere come prevenzione.

Una tragedia che di nuovo ci porta a riconsiderare l’importanza dell’invito formale al “conosci te stesso”, una vera e propria massima imprescindibile. Giacché conoscersi vuol dire scoprire quali sono le proprie inflazioni. Nominarle e renderle più familiari, cercando di contenerle…e sicuramente imparando che ciò che vogliono e ci chiedono non è di essere agite, ma altro.

Il fine della psicoterapia:

Il fine della psicoterapia, come ci spiega, infatti, James Hillman, è quello di educare alla capacità immaginativa, insegnando l’arte di vivere tra le immagini. È trasformare le tragedie che si svolgono metaforicamente dentro di noi in “storie che curano”, risituandole nel loro palcoscenico immaginale, dove una vita possa finalmente aver dimora. È solo in questo senso che la psicoterapia “guarisce”, aiutandoci a ritrovare il senso perduto del vivere e del morire entro un cosmo che non è più quello letterale del mondo concreto che ci circonda, ma è quello dell’anima che è dentro di noi e nella quale, allo stesso tempo, siamo immersi.

Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, recitava il poeta. E nostra è, pertanto, la responsabilità morale di conoscere, per quanto ci riesce, come funzioniamo e cosa avviene dentro di noi, evitando così le piccole e le grandi atrocità che vediamo.

Non possiamo esonerarci dal farci carico di noi stessi e dall’occuparci dei nostri demoni interni. Basterebbe poco, davvero poco, a renderli angeli. E, invece, li lasciamo lì, soli a incattivirsi.

La vita non dovrebbe ammettere ignoranza.

Angela Paris, Michela Bianconi

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