Non si poteva parlare di un tema importante come quello della Morte come palcoscenico psichico, se non partendo da una citazione del camaleontico Gigi Proietti, mirabile attore nato e scomparso proprio nel giorno e nel mese dedicato ai morti.
Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d’infanzia fino alla morte,
che nel teatro si replica tutte le sere.
Ci siamo chieste, infatti, che senso potesse avere la morte al giorno d’oggi, con i tempi che corrono, i riti ridimensionati alle più strette cerchie familiari, i bollettini di guerra riportati ogni sera dai telegiornali. Quella costante aria di timore che, oramai, non può più essere negata. Né ignorata. Viviamo tempi difficili, tra spettri di lockdown e guerre. Tempi che sempre più e sempre con maggior aggressività ci ricordano l’importanza di qualcosa che spesso e volentieri, forse proprio perché ci stiamo dentro, tendiamo a ignorare. La vita.
Analisi della citazione:
Analizziamola, allora, la bella citazione da cui siamo partiti, e concentriamoci sull’ultima parte di essa. Certo, la frase è ambigua, leggibile in almeno due modi, ma forse il senso reale che nasconde è proprio in questa ambiguità, in questo suo intrinseco dualismo, che sembra quasi giocare a dadi con il nostro modo d’intenderla. Quasi un’illusione ottica. Proviamoci, allora, a entrare al suo interno, con lo stesso rispetto e la stessa umiltà che avrebbe richiesto, a suo tempo, un responso oracolare, mai chiaro per principio.
Il gioco e il teatro:
Il primo modo di leggere questa citazione è un modo goliardico e leggero, che non si fatica a proiettare nel vasto e meraviglioso mondo del teatro.
Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare (fino alla morte)
i nostri giochi d’infanzia, (privilegio) che nel teatro si replica tutte le sere.
Una parafrasi che non ha bisogno di troppe spiegazioni, ma che pure c’incanta e suscita malinconia. Perché tutti noi siamo stati bambini e tutti noi ricordiamo con tepore il periodo bellissimo di quegli anni spensierati, quando bastava un semplice manico di scopa per sentirsi dei veri e propri cowboy e un lenzuolo intorno alla vita per sentirsi una principessa. Ma in fondo è questo il grande potere del teatro, quello che affascina e trascina chiunque: creare l’illusione di essere qualcun altro. Immedesimarsi talmente tanto in lui da avvertirne le emozioni, i pensieri, quasi respirando al suo stesso ritmo. La rapidità di un cambio maschera che, divertendoci o facendoci sognare, incide allo stesso tempo dentro di noi, oltrepassando le carni con battute celebri, indelebili e…immortali. Un cambio maschera, però, che richiede sempre una cornice, la cui ricerca ci spinge inesorabilmente verso il secondo modo di leggere e d’intendere la citazione del grande Gigi.
Il teatro e la morte:
Ringraziamo Iddio, noi attori, che abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d’infanzia fino alla morte,
(morte) che nel teatro si replica tutte le sere.
Una botta al cuore. Parole che pesano in un modo del tutto diverso dal precedente e che lasciano intendere la morte, da sempre il nostro peggiore nemico, come il simbolo di uno scenario più vasto, se non addirittura immenso, all’interno del quale si muove la vita…pensiamoci. I grandi attori ce lo ricordano ogni volta nei mille ruoli che impersonano. Ruoli che muoiono all’ultimo battito di mani del pubblico per permettere alla persona, oltre di essi, di tornare ad essere se stessa: l’uomo (o la donna) oltre la maschera. Ruoli grandi e piccoli, che in un modo e nell’altro ciascuno di noi, senza accorgersene, al di là di un palcoscenico concreto, porta in scena giorno dopo giorno nelle decine di attività in cui si cimenta.
Che cos’è la morte, allora? Potremmo chiederci.
Che cos’è, a livello metaforico, per la nostra psiche?
Che cos’è la morte?
Pensiamo a tutte le volte che la sogniamo. Tutte le volte che, in quelli che definiamo incubi, al nostro interno, assistiamo alla dipartita di qualcuno, se non addirittura alla nostra. La morte, come perdita, porta un vuoto. Ma un vuoto altro non è, ci spiega James Hillman, che il presupposto per un nuovo riempimento. Esattamente come a teatro, dove la scomparsa di un personaggio, al termine dello spettacolo, permette a qualcun altro di salire in scena.
Come a dire che Gigi Proietti era (ed è) il Genio della Lampada di Aladino. Era (ed è) lo scommettitore Mandrake. Era (ed è) il magnifico Conte Duval, in grado di fraintendere ogni singolo suggerimento, eppure c’era altro dietro tutte queste, indimenticabili, maschere. Quell’altro, estremamente fluido e plastico, che certamente gli permetteva di interfacciarsi ogni volta con i propri personaggi. L’uomo che ogni volta, salendo in scena, portava se stesso oltre (cioè dietro) la maschera.
È così, con la stessa disposizione e la stessa dinamica plasticità, che dovremmo intessere i dialoghi con i personaggi psichici dentro di noi, ogni volta cercando di accogliere il nuovo aspetto profondo da essi veicolato, per incarnarlo e farlo nostro. Del resto, non è forse con questo scopo che è nato il teatro? Per aiutarci a vivere all’esterno vicende interne?
La psiche: il grande teatro dentro di noi.
Diciamocelo, allora: sì, forte e chiaro. La psiche, come ben evidenzia il sogno, è il nostro più grande teatro e noi, in quanto suoi attori, registi, sceneggiatori, spettatori, non possiamo far altro che seguirne le regole. Dobbiamo imparare, allora, a tollerare il buio prima dell’inizio dello spettacolo e a dimenticare, ogni notte, le preoccupazioni del mondo diurno. Accettare di morire per un po’ a noi stessi, per penetrare nelle vicende che si svolgono dinnanzi e dentro di noi e partecipare ad esse, lasciandoci commuovere o divertire da quelle nuove voci. Quei nuovi modi di essere o di stare che emergono come per magia dall’interno, a sostegno dell’impatto con il pubblico.
Chi, infatti, non si è mai sentito dinnanzi a un sogno, come se stesse vivendo un film? E chi, di fronte a un film, non si è mai sentito talmente coinvolto da sperimentare gli stessi stravolgimenti emotivi del personaggio proiettato sullo schermo?
La morte come palcoscenico psichico:
Ebbene tutto ciò è fattibile in virtù della morte. Una morte figurata, simbolica, che ci aiuta a sospendere qualunque residuo della nostra quotidianità, esattamente come fa un attore: sospendendo la propria vita personale, per spalancare le porte di un altro modo di essere, sentirsi, comportarsi. Un nuovo personaggio. Un altro ruolo o aspetto psichico.
La morte, insomma, per il nostro mondo interno, è un mezzo: quel ponte che ci permette di fuoriuscire da noi stessi per incontrare noi stessi, negli aspetti di noi che ci appartengono sotto la superficie e che spesso e volentieri non conosciamo. E’ quell’ombra proiettata sulla parete del fondale scenico che ci consente di attribuire profondità all’azione che si sta svolgendo, e che ci consente di vedere la verticalità che le appartiene: il senso intrinseco che la nostra psiche attribuisce ad ogni nostro gesto, ad ogni nostra parola.
La morte è, insomma, quell’attributo di valore e preziosità che fa da cornice al contenuto vitale con cui, di volta in volta, ci viene chiesto di confrontarci e quella ricchezza intrinseca che spingeva i greci a definire Ade, Dio dell’Oltretomba, come l’Oltremodo Ricco.
La morte come attributo di valore:
È esperienza comune, del resto: uno sfondo scuro fa risaltare qualsiasi contenuto, esaltandone i contorni e rendendone più vivi(di) i colori. La morte, dunque, in altre parole, dà valore alla vita. Come scrive Hillman, ne Il lamento dei morti: Forse dovremmo convincerci che siamo qui non per capire tutto, ma per apprezzare quello che c’è. E il valore di ciò che c’è, altro non è dato se non dalla Morte.
La morte nella cultura messicana: il Dìa de los Muertos.
Un grande esempio, in tal senso, è fornito dal coloratissimo Dìa de los Muertos, una festa messicana così speciale che, nel 2003, è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità. L’Unesco la definisce, infatti, come una delle più antiche espressioni culturali che, attraverso la celebrazione degli antenati, afferma non solo l’identità di un popolo, ma anche le sue origini indigene, mostrando la morte da un punto di vista decisamente insolito e curioso, a cui senz’altro non siamo abituati. Canti, balli, sfilate in costumi di scheletri coloratissimi. Picnic nei cimiteri e altari dedicati ai defunti costruiti all’interno di ogni casa, come porte che stanno a simboleggiare il passaggio tra la vita e la morte. Porte alle quali viene offerto del cibo, il preferito del defunto, così che durante la notte il suo spirito sia richiamato a far visita ai vivi, allettato da ciò che essi hanno preparato per lui. Un incontro con chi non c’è più, che non tende ad esorcizzare un timore o un dolore, quanto piuttosto a rendere omaggio. Rendere omaggio alla Morte in quanto tale e alla Morte in quanto esaltatrice della Vita.
La morte nella cultura greca: Dioniso e l’archetipo della Zoé.
Una relazione non estranea neanche agli antichi greci, nella cui mitologia le divinità rappresentanti della vita s’interfacciano costantemente con le divinità che richiamano la morte. A partire dai culti di Demetra, e di sua figlia Kore/Persefone, entrambe emblemi della fecondità, le cui vicende s’intrecciano mirabilmente con quelle di Ade, il grande signore del Mondo Infero. Fino ad arrivare a Dioniso: un mirabile sunto di Morte e Vita.
Questa divinità, da tutti conosciuta come dio del vino, ma osannato anche da Nietzsche come dio (guarda caso) del teatro, incarna, infatti, nella mitologia greca (e orfica, ancor di più) l’Archetipo della Zoé, la vita qua vivimus o essenza indistruttibile della vita. Eppure Eraclito ce lo presenta identificato con Ade, dio dell’Oltretomba e principio invisibile dell’esistenza psichica che sottende il mondo visibile. Nato in seno alla Morte, come simbolo di quella vita che non si arresta, di quella Vita che, pur cambiando continuamente forma e manifestazione (bios), resta sempre federe a se stessa. Una vita così fluida che, metaforicamente, potremmo assimilare alla psiche.
Morte come strumento di trasformazione:
E allora ecco che la morte assume un altro contorno. Oltre che ponte, diventa infatti strumento di trasformazione. Giacché per mezzo di una morte figurata e metaforica, nel nostro personale mondo interiore, il vecchio va a cedere il passo al nuovo, fertilizzando l’oscuro terreno dell’anima, sempre pronto ad accogliere un nuovo modo di vivere la vita.
La morte nel mondo concreto:
Certo, difficile pensarla così quando, a livello concreto, ci troviamo di fronte ad un lutto tutt’altro che immaginale. Difficile pensarla così quando il dolore e la fatica dell’addio, spesso così intensi da travolgerci, sono ancora troppo scottanti. Serve tempo per elaborare una morte. Eppure, superato il vuoto, persino in questo caso si può giungere ad un cambiamento, un cambiamento che ha a che fare con il costruire una nuova forma di relazione con l’immagine di chi ci ha lasciato.
Pensiamo, infatti, che le persone che abbiamo amato e che ci portiamo nel cuore, continuano a vivere dentro di noi, come parti integranti della nostra psiche. Le loro voci, i loro modi di fare persistono nella nostra memoria e nei nostri gesti. Possiamo incontrarli, allora, nei nostri sogni, nelle immagini spontanee e nelle fantasie. Possiamo sentirli ogni volta che, di fronte a un dubbio atroce, qualcosa dentro di noi ci suggerisce di fare come il nostro caro scomparso. Come agirebbe o cosa direbbe lui/lei se fosse al mio posto o nella mia stessa situazione? Cos’ha fatto quando quella volta anche lui/lei si è trovato/a in questa mia stessa difficoltà di adesso?
Si tratta di una relazione che può essere molto nutriente e molto potente, quasi più vivida (talvolta) di quelle che possiamo avere con le persone vive, troppo spesso date per scontate. Una relazione che apre, dunque, le porte alla bellezza di una rapporto possibile oltre i limiti della finitezza umana, che non ci farà mai sentire incompleti o mancanti e che, proprio come un personaggio per un attore, può diventare di supporto al nostro muoverci nel mirabile teatro della vita.
Conclusioni:
Ci piace chiudere quest’articolo con una citazione tratta da una commedia del 2000 del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Un film dove la morte viene chiamata in ballo per riportare in vita un’amicizia vissuta all’interno e all’esterno di un palcoscenico.
Cosa aggiungere potrebbe un narratore
a quanto già narrato dall’attore;
a me non resta altro che sparire,
fare un bell’inchino e poi svanire.
Come Cyrano che confessa e muore a piedi del suo grande eterno amore,
anch’io finito il mio cammino mi accascio e vado verso il mio destino.
Che è quello di chi inizia e già finisce,
sboccia e dopo un attimo appassisce,
di chi vive soltanto un paio d’ore,
sperando in un applauso e dopo muore.
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Dott.ssa Angela Paris e Dott.ssa Michela Bianconi