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INCONSCIO COLLETTIVO: dischiudere le porte alla ricchezza psichica.

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Inconscio collettivo, introduzione:

Teoricamente non si possono porre confini al campo della coscienza, poiché è capace di estendersi indefinitamente.
Ma empiricamente urterà sempre al confine dell’ignoto. Quest’ultimo comprende tutto ciò che non sappiamo,
dunque ciò che non si rapporta all’io quale centro del campo della coscienza. L’ignoto si divide in due gruppi di oggetti, cioè quelli sperimentabili attraverso i sensi, gli esterni, e quelli sperimentabili immediatamente, i fatti interni.
Il primo gruppo rappresenta l’ignoto del mondo esterno, il secondo quello del mondo interno.
Quest’ultimo è la regione che chiamiamo inconscio…
C.G. JUNG _ Aion (1951, pag. 15)

Parlare di psicologia, come discorso intorno alla psiche o anima, è parlare di un processo di conoscenza che si estende per tutta la vita tra sé e sé. Un racconto, portato avanti quasi in terza persona, di un dialogo spassionato e intrigante che si svolge tra un interlocutore e il riflesso che di lui stesso affiora in uno specchio caldo e accogliente. Uno specchio metaforico che sancisce la linea di confine intorno a cui complottano identità e alterità (Carla Stroppa _ Il Satiro e la Luna Blu, 2010, pag. 17).

Lo specchio di psiche:

Possiamo immaginare questo specchio come la superficie di un lago, sulle cui acque limpide e cristalline l’Io, che s’illude di essere il tutto (ibidem, pag. 16), si affaccia verso l’ignoto. Il primo riflesso che nota, ovviamente, è quello di se stesso: il riflesso che gli permette di riconoscersi. Ma più guarda, incuriosito e richiamato dalle profondità nascoste nel lago/psiche, più si accorge che sotto la superficie c’è altra vita che si muove. Una vita autonoma, fatta di creature evanescenti e piuttosto difficili da afferrare a mani nude, che l’osservatore inevitabilmente, all’inizio, vive e percepisce come Altro-da-sé. Ma dal quale, altrettanto inevitabilmente, è attratto.
Ciò che si viene a creare, a questo punto, è il desiderio. Come nei confronti di qualunque aspetto che ci intriga, ma che sentiamo non appartenerci, viene a instaurarsi, infatti, la necessità di un legame, di amore e di senso, e di una relazione che non si basi sulla disparità del piccolo e finito di fronte al grande e infinito, ma su un dialogo fluido e costante, mediato e moderato dalla coscienza.

L’emergere di nuove trame psichiche:

È così che, accostandosi a questo limen, proprio mentre si tenta di accorciare e accordare le differenze tra noto e ignoto, che balzano fuori nuove trame. Il confine dell’Io si sfrangia, nella sua necessità di avere un limite, e si complica nell’atto di un’autodefinizione inevitabilmente influenzata dall’apporto proprio di quell’oltre, fatto di pensieri e immagini che si susseguono richiamandosi gli uni con gli altri secondo una logica sui generis (ibidem, pag. 19). Si entra, allora, in uno stato di negoziazione, dove il sapere originario viene messo in discussione da quello, ben più ampio, che emerge affiorando dal fondo dello specchio. Si riconosce che dentro e fuori non sono, non possono essere, attraversati da una linea di confine che ne marchi una volta per tutte la differenza (ibidem). Finché ciò che si riconosceva come una cornice definita (l’io), si configura come una cornice arabescata sempre alludente, sempre rinviante a ulteriori immagini e significati. Ma restando, pur sempre, una cornice.

È questa la natura dell’esperienza immaginativa, inutile sottrarsi al gioco: il flusso si congelerebbe. Allora la questione diventa un’altra: come trovare un pensiero che sappia accogliere l’inevitabile sfrangiamento del limite senza per questo collassare? Tanto più che la soglia, come ho già cercato di dire, lungi dall’essere una questione oziosa e fine a se stessa, è il problema stesso dell’Identità.
(Stroppa C. _ Il satiro e la luna blu, pag. 19)

Il dialogo tra comportamento, pensiero e anima:

Ciascuno di noi, all’inizio, è inconsapevole del rapporto che intercorre tra il nostro comportamento, il nostro pensiero e la profondità della nostra anima. Eppure è con essa che siamo in costante dialogo, l’anima che si esprime per immagini e per umori variabili e che, a dispetto del bisogno di limiti dell’Io, sempre corteggia l’assoluto. Quell’assoluto che, se da un lato affascina, dall’altro certamente pietrifica e spaventa. Qui méduse, come direbbero i francesi. Che compie l’azione della Medusa, intrigante, attraente, ma che non può mai esser guardata direttamente.

Non che tu possa
comunque reggere la voce di Dio. Ma ascolta come spira
l’ininterrotto messaggio che dal silenzio si forma.
(Rilke, R.M. _ Prima Elegia, vv. 58-60)

La psiche come labirinto:

Possiamo infatti descrivere la psiche come una sorta di labirinto, se non come Labirinto per antonomasia. Intrigante nelle sue trame, eppure allo stesso tempo inquietante. Il confronto affascina, tanto nutre e satura di immagini, ma al tempo stesso atterrisce, giacché, si configura come una selva oscura all’interno della quale è necessario smarrirsi. Non è così, del resto, che inizia la Commedia dantesca?

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
che la diritta via era smarrita.
(Dante _ Inferno, vv. 1-3)

Il labirinto attende chiunque. Lo invita. Lo seduce con ogni mezzo, finché non si risolve ad entrare. Solo chi accetta, infatti, di smarrirsi, come ben mostra la divina opera dell’Alighieri, può ritrovarsi su un altro piano di coscienza.

La chiave del possibile, sulla porta che dà su orizzonti rinnovati, si trova spesso nell’alveo medesimo dello smarrimento interiore. L’immaginazione ha sempre visto e ancora vede nel labirinto la perfetta metafora di un passaggio a un’altra condizione di consapevolezza.
Alla fine l’uscita è lì. C’è sempre stata.
(Stroppa C. _ Il satiro e la luna blu, pag. 21).

Psiche labirintica:

Labirinto.
Nel dialogo pubblicato da Platone sotto il nome di Eutidemo, Socrate nomina e descrive il labýrinthos (λαβύρινθος) come una figura in cui è facilissimo riconoscere una linea a spirare o a meandro che si ripete all’infinito. Se danzando si segue una spirale e, al termine del movimento circolare si fa un voltafaccia, si ritorna al punto di partenza. Una descrizione, questa, molto simile a quella che sempre Socrate, ma stavolta nel Fedone di Platone, fa del mondo infero, caratterizzato non solo da molte curve e controcurve, ma anche da biforcazioni, rendendo di fatto l’immagine dell’Ade, come di un luogo in cui ci si aggira inutilmente, senza via d’uscita. Un vero e proprio luogo di morte, dunque, come testimoniato anche dall’iscrizione trovata sotto il mosaico di un dedalo (dal nome del famoso costruttore del labirinto del Minotauro) nella tomba di una famiglia nelle vicinanze di Adrumeto, in Nordafrica: Hic inclusus vitam perdit, chi è qui rinchiuso perde la vita.
Di controcanto, in una perduta tragedia, Sofocle definiva il labirinto achanés, termine che può essere tradotto sia con “privo di tetto” sia con “ingresso con le porte aperte”, ipotizzando di fatto la possibilità di un passaggio che conduceva verso la luce.
Un luogo insomma nel quale, sì, è possibile perdersi e rischiare di non tornare. Ma dal quale, abituandosi a starci e accogliendone il contatto, si può però anche sperare di acquisire conoscenze e ricchezze infinite.

Viaggio verso la profondità:

Pensiamo di nuovo a Dante, al suo viaggio iniziatico verso l’oltretomba. La prima tappa del viaggio è necessariamente la discesa nel mondo infero. Una discesa costellata dalla possibilità di incontrare e confrontarsi con tantissimi personaggi altrimenti sconosciuti, ciascuno prodigo di storie e pronto a raccontarsi, arricchendo l’esperienza del poeta di nuovi punti di vista sul mondo e sulle realtà fino ad allora conosciute.
Ma torniamo, ancora, al labirinto.
In una tavoletta di Cnosso, come riporta Kérenyi (1976), compare il primo personaggio divino della mitologia greca immediatamente riconoscibile anche in assenza di nomi. Si tratta di una grande dea di alto rango: la cosiddetta Signora del Labirinto, le offerte alla quale, a base di miele, venivano sovente accompagnate da movimenti di danza.

Persefone, regina del labirinto:

Omero paragona nell’Iliade (XVIII, 590) il terreno adibito alla danza che Efesto aveva rappresentato sullo scudo di Achille, con quello che Dedalo aveva creato a Cnosso per Arianna, la fanciulla “dalle belle trecce”, figlia di Minosse “dai malvagi pensieri”, e sorella del Minotauro, attributi, questi, che richiamano ancora al labirinto come luogo di morte. Arianna, infatti, è in stretto rapporto con entrambi gli aspetti di questo luogo: la dimora dello spaventoso mostro, metà uomo e metà toro, da un lato, e la danza che si avvolge e si svolge dall’altro. Relazione, questa, che poteva essere propria solo della Signora del Labirinto. La Grande Dea è quindi divenuta, nella leggenda, una principessa, della cui identità tuttavia non si può dubitare, a partire dal nome stesso. Arianna, infatti, Ariádne, è una forma greco-cretese per Arihagne, che significa la “oltremodo pura”.
Ma la “oltremodo pura” fra tutte le dee era per i Greci soprattutto Persefone, la regina del mondo sotterraneo.
È così, allora, che vogliamo paragonare il senso di iniziazione al dialogo con la psiche e con la profondità, al mito che si svolge intorno a questa divinità. Il mito di Kore, prima ancora che di Persefone. E di come l’una evolse nell’altra.

Il mito di Kore/Persefone:

Comincio a cantare Demetra dai bei capelli, dea venerabile,
e la sua figliola dalle caviglie sottili, che Adoneo
rapì -glielo concesse Zeus onniveggente, signore del tuono…

Ecco, già tutto racchiuso nell’incipit dell’inno Omerico a Demetra, il racconto tragico e molto toccante, del rapimento che condusse Kore, la fanciulla senza nome, a divenire l’implacabile regina degli Inferi.
Tutto ebbe inizio su un morbido prato.
Kore, figlia della dea delle messi e di Zeus, accompagnata dalle floride figlie di Oceano, vi raccoglieva fiori: le rose, il croco e le belle viole. Iris e giacinti. Finché un bel narciso attirò la sua attenzione, insidia per la tenera fanciulla. Questo era un fiore di rara bellezza, prodigiosa visione sia per gli uomini mortali che per gli dèi immortali, generato su richiesta di Zeus, per compiacere il signore infernale.
Affascinata dal fiore, allora, la fanciulla fece quindi per protendere la mani e raccoglierlo, considerandolo un bel balocco. Ma ecco che l’ampia terra si aprì nella pianura di Nisa e ne uscì con i suoi cavalli immortali il signore che ha molti nomi e molti sudditi, figlio di Crono: Ade, che afferrò la ragazza e la condusse via sul suo carro d’oro.
Il senso di iniziazione di Kore ai misteri della sua profondità non fu né delicato né progressivo. L’azione di Ade, signore dell’Oltretomba, nei suoi confronti, fu infatti tutt’altro che misurata. Giacché tempo era giunto per la giovane di smettere di essere una semplice creatura che campa alla giornata, priva di aspettative, ed evolvere in se stessa.

L’iniziazione di Kore alla profondità:

Così Kore si ritrovò rapita, catapultata e persa in un altro mondo. Un mondo che non conosceva e che assumeva i tratti e i lineamenti del dio che l’aveva fatta sua contro la propria volontà. La sua personalissima selva oscura.
E si perse.
Si disperò.
Vittima del suo stesso labirinto.
Eppure è proprio lì che peté scoprire e risvegliare la Persefone che era sempre stata dentro di lei.

Mito e fiaba: “La Bella e la Bestia” come processo di iniziazione:

Come ciò accadde, nel mito è poco chiaro. Ma forse una fiaba ben più recente (almeno nell’apparenza) può fungere da anello di congiunzione: quella di Madame Leprince de Beaumont. La Bella e la Bestia, alla quale ci riferiremo vista la larga diffusione, a partire dal famosissimo cartone animato, prodotto dalla Disney del 1991.

La trama è semplice.
Belle, una ragazza di campagna, vive la sua vita sognando un futuro migliore, in un piccolo paesino, nel quale la vita scorre ogni giorno sempre uguale a se stessa. Una routine dalla quale la giovane si difende, rifugiandosi in un mondo di immaginazione e di alternative fantastiche, facilitato dalla lettura. La sua vita subirà una forte svolta il giorno in cui, incamminandosi in un altro paese per una fiera, suo padre (inventore nel cartone, ma mercante nella fiaba originale), si perde in un bosco oscuro e trova rifugio (o meglio dire, una prigione) in un vecchio castello, isolato e mal messo.
Preoccupata, Belle parte alla sua ricerca.
Si smarrisce a sua volta e a sua volta si ritrova dinnanzi al portone del castello.
Qui baratta la propria libertà con quella di suo padre.
E si ritrova prigioniera a sua volta di uno sconosciuto che esita a mostrarsi e preferisce restare nell’ombra: la Bestia.

L’incontro con la Bestia:

Il rapporto tra i due è subito conflittuale.
La Bestia, disabituata al contatto umano, appare infatti come intrusiva e aggressiva. Un mostro dai modi brutali. Arrogante e perennemente sulla difensiva, che dà regole e teme di esser scoperto nella propria reale identità. L’Ade perfetto per la Kore rappresentata da Belle, talmente spaventata dagli oscuri segreti nascosti nel palazzo, da tentare di scappare, rischiando di perdersi di nuovo nel bosco.
Aggredita da lupi famelici che vogliono sbranarla e farla a pezzi, Belle/Kore sarà allora salvata proprio da colui che era stato il suo primo carceriere. La Bestia che la riconduce al sicuro e che le permette, finalmente, di scorgere un lato più umano di sé.
Inizia così una strana relazione.
Una relazione che inizia con la diffidenza ma che lentamente evolve.

L’ingresso nella biblioteca: accesso all’inconscio collettivo.

Ebbene, c’è una scena in particolare, a questo punto, su cui sembra importante soffermarsi. Abbiamo detto che Belle ama la lettura. La sua sete di conoscenza, però, è istigata e appagata, prevalentemente, da un solo libro: quello che richiama in qualche modo il suo destino. Un destino, compiuto il quale, però, occorre necessariamente aprirsi ad altre opportunità. Ad altro sapere.
È così che la Bestia, per far colpo su di lei, le spalanca le porte della sua immensa biblioteca, in un’immagine che resta impressa alla mente di tutte le anime romantiche, ma che per noi, inesorabilmente, richiama un aspetto del tutto particolare. Riportandoci, esattamente, al punto di partenza (e al titolo) di questo articolo.
La conoscenza attraverso la relazione di sé con se stessi.
Se, infatti, vogliamo considerare Belle come la giovane Kore che si adatta alle proprie conoscenze, senza ricercarne concretamente di nuove, pur sognandole (legge sempre lo stesso libro), e la Bestia come quell’Altro médusant, che allo stesso tempo affascina e spaventa, ecco allora che la storia del loro amore diventa la storia del dialogo tra l’io adattato, che crede di essere tutto (Stroppa C. _ Il satiro e la luna blu, pag. 16), e l’inconscio, l’ignoto nella sua accezione più arcaica e primitiva: quella animalesca.

Inconscio collettivo come relazione:

Un dialogo che porta a una rispettiva maturazione ed evoluzione, giacché se l’io cambia se stesso, passando dall’essere una contadina che vive una vita routinaria e senza prospettive all’essere una regina (la guida del popolo), dall’altro lato l’immagine stessa della Bestia si ripulisce. Le caratteristiche mostruose vengono perse. Artigli e zanne decadono. E il principe Adam (il principe UOMO) raffina finalmente la propria forma esteriore.
Lo stesso accade all’intruso, ad Ade, quando Kore, ormai divenuta Persefone, cessa di vederlo come aggressore e comincia a vederlo come marito. Come il compagno della sua eternità. Colui con il quale è possibile intessere un rapporto costante e continuo, un rapporto fatto di nutrimento e affetto.
La Bestia/Ade, infinitamente ricca, nella relazione apre all’io le porte di una conoscenza altra, una conoscenza talmente vasta e multiforme, da racchiudere in sé tutto lo scibile umano: tutto ciò che l’uomo ha prodotto da quando si è riconosciuto come tale.
Ha spalancato, cioè, per lei, le porte dell’Inconscio Collettivo, permettendole così di accedere ad un tesoro nascosto che nessuno, a parte lui stesso, poteva sapere esistesse.

L’inconscio collettivo:

La definizione “Inconscio Collettivo” apparve per la prima volta utilizzata da Jung nel testo: Trasformazioni e simboli della libido, del 1912, dove il celebre psichiatra svizzero riportò il contenuto di  alcune allucinazioni di pazienti schizofrenici senza alcuna cultura e scolarizzazione. Si trattava di deliri in cui era possibile evidenziare miti di un passato ed elementi culturali  che i pazienti stessi, proprio perché non scolarizzati, non potevano aver in alcun modo conosciuto né acquisito direttamente.

Contenuti che, per l’esperienza psicologica, non potevano che appartenere ad un substrato collettivo, identico in tutti gli uomini e riferente ad un’umanità antichissima. Il patrimonio comune ereditario e intatto da ogni differenziazione ed evoluzione, donato agli uomini al pari della luce e del sole e dell’aria. Quindi nella sua prima definizione l’inconscio collettivo venne chiaramente ricollegato alle immagini primordiali ereditate.
Una definizione, questa, che venne poi rivista da Jung, anche alle luce del confronto con le moderne teorie lamarkiane, secondo le quali ogni mutazione negli organismi è il frutto di un graduale e continuo processo di adattamento alle varie pressioni dell’ambiente.
E così, dal 1917, in Psicologia dell’inconscio si può leggere che:

L’ inconscio collettivo è come un sedimento dell’esperienza e insieme,
in quanto a priori,  dell’esperienza stessa, un’immagine del mondo che si è formata nel corso dei secoli. Non a caso, infatti, noi l’abbiamo paragonata alla smisurata biblioteca della Bestia, all’interno della quale è contenuto ogni scibile umano. L’inconscio collettivo è un patrimonio ereditario di possibilità rappresentative non individuali ma comuni a tutti gli uomini e forse a tutti gli animali, e costituisce la vera e propria base della psiche individuale.
(C.G. Jung _ La struttura della psiche, 1927)

L’immensa ricchezza dell’inconscio collettivo:

Grazie a questo patrimonio, che ci mette di fronte al nostro stesso essere umani, nella purezza del termine, cioè ci mette di fronte a ciò che più caratteristicamente ci rende umani (giacché contiene tutte le soluzioni ai possibili problemi e alle possibili situazione che abbiamo mai dovuto affrontare), noi abbiamo la possibilità di poter accedere a una conoscenza pressappoco infinita. Una conoscenza che, rispondendo alle nostre spinte verso crescita e al miglioramento personale, ci offre la possibilità di poter mediare ancora tra quello che sappiamo e quello che potremmo sapere. Tra il noto e l’ignoto.
Proviamo a dirlo in altri termini, facendo un esempio che, sì, potrebbe sembrare stupido, ma forse ben rende l’idea.
Partiamo di nuovo da Belle. Da quel libro che legge e rilegge in continuazione.

Prospettive sulla psiche:

Se ciascuno di noi basasse la sua visione di se stesso e del mondo a partire dal sapere contenuto in un solo testo, avrebbe per definirsi solo una prospettiva: il modo di vedere se stessi e il mondo descritto proprio in quel libro. Questa diventerebbe di conseguenza una conoscenza sedimentata, ma quasi dogmatica, a cui la psiche, che ha costantemente bisogno di mezzi che la descrivano e le rinviino immagini di se stessa, potrebbe appoggiarsi in toto. Quasi come un’inferma a un bastone.
Quella storia e quella prospettiva di visione diventerebbe allora l’unica lente attraverso cui interpretare la sua realtà, una lente che inevitabilmente, proprio perché così unica, deve per forza consolidarsi e arroccarsi in un aspetto granitico. Pensiamoci: se proprio devo reggermi a un bastone, la mia scelta non può ricadere su un sottile giunco, ma dovrò cercare il ramo più spesso possibile, così che non crolli o non si spezzi sotto il mio peso.

Monoteismo e Politeismo psichico:

Questa modalità, che potremmo definire monoteistica, comporta pertanto il rischio della rigidità. Un rischio che, se facciamo di nuovo riferimento al bastone su cui appoggiarsi, necessariamente va a costituire un punto di fragilità. Tutti noi sappiamo infatti che più un elemento è rigido, più, posto sotto pressione, rischia di frantumarsi in mille pezzi. Il che è come dire che più siamo arroccati in una convinzione, facendo di questa il nostro dogma, più rischiamo di esser risucchiati o spezzati da tutto ciò che questa convinzione può attaccare. Per questo non possiamo far altro che temerlo.
Occorre flessibilità per non spezzarsi, come ci ricordano le canne al vento.
Una flessibilità che, nel caso della psiche, può esser data solo dalla capacità di mettere in discussione le nostre conoscenze.

Ampliare le prospettive psichiche. Accedere all’inconscio collettivo:

Torniamo ai libri, allora, e immaginiamo di poterne accumulare (ovviamente letti e consultati) una discreta quantità. Ogni nuova lettura ci permetterà di arricchire il nostro bagaglio di conoscenze, di mediale e modularle sulla base delle novità che apprendiamo. Badando bene, però, che una storia già letta e ascoltata, anche se superata e ormai smentita da altre, comunque sia resta una parte di noi. Resta una conoscenza che possediamo. Rivista. Rimanipolata, ma pur sempre accessibile.
Che cosa potrebbe accadere, allora? Quanta ricchezza potremmo acquisire e su quanta flessibilità potremmo appoggiarci se avessimo accesso alla biblioteca dell’infinitamente ricca Bestia? Se avessimo accesso a tutta la conoscenza inserita in quei libri?
Certo, si potrebbe obiettare, se ci si appoggia su qualcosa di troppo flessibile, così come su qualcosa di troppo rigido, non si rischia lo stesso di cadere? Eppure obiettando ciò, quello che viene perso è che, nel confronto con la biblioteca infinita, non avremmo più un solo bastone a cui far sostenere il nostro peso. Ma ne avremmo tanti quante sono le stelle dell’universo.

La ricchezza dell’inconscio collettivo:

Nulla allora collasserebbe, come constata persino la fisica:

Newton si rese conto che, secondo la sua teoria della gravità, le stelle avrebbero dovuto attrarsi tra di loro, cosicché sembrava che non potessero restare essenzialmente immobili come apparivano. Esse avrebbero dovuto invece cadere tutte verso un qualche centro gravitazionale. In una lettera da lui scritta nel 1691 a Richard Bentley, un altro tra i principali pensatori di un tempo, Newton sostenne che questo era per l’appunto quanto accadrebbe se esistesse solo un numero finito di stelle distribuite in una regione finita dello spazio. Egli affermò però che, se esistesse invece un numero infinito di stelle, distribuite in modo più o meno uniforme in uno spazio infinito, ciò non accadrebbe, perché in tal caso non esisterebbe un punto centrale verso cui cadere…
(Stephen Hawkings _ Dal Big Bang ai Buchi Neri)

L’inconscio collettivo e il suo risvolto nella pratica clinica:

La nostra psiche è politeistica.
E tutto ciò, nella pratica clinica ha un risvolto eccezionale. Un risvolto che, prima di Jung, nessuno avrebbe ritenuto mai pensabile o anche solo sognabile. Proviamo a immaginare un paziente incastrato nella storia che racconta.
Come dice Hillman:

La nostra vita non è determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato ad immaginarla…
(J. Hillman _ Il codice dell’anima)

Se la nostra immaginazione contempla una sola storia e una sola trama, facciamo un esempio: un padre assente, ne risulterà allora, che l’unico modo che abbiamo per descrivere il nostro modo di essere, di sentire e di comportarci, passa inesorabilmente attraverso questo racconto. “Io sono così, perché mio padre non c’era mai”.
Il paziente non sa, però, perché forse non ha mai osato mettere in discussione tale credenza, che quel padre assente nel concreto, dentro di lui avrebbe potuto essere compensato, se non completato, da altri immaginari paterni: le immagini di tutti quei padri che, nel corso dell’evoluzione della nostra specie, si sono sedimentate dentro di noi. Tutti quei padri le cui storie e le cui caratteristiche sono celate, in attesa che qualcuno ne spalanchi le porte, dentro quella mirabile biblioteca che costituisce il nostro inconscio collettivo.

Storie che curano…

Entrarvi allora, accedere a questa ricchezza, non può che avere per il paziente un risvolto magico (da mag: in più). Un risvolto che, ineluttabilmente, lo porterà a rivedere la propria storia, restituendogli un senso di responsabilità personale sulla propria vita, laddove prima, ad esempio, essendo la colpa imputata al padre assente, questa non poteva che essere subita.
Si risveglia, di conseguenza, un nuovo modo di raccontarsi.
Un nuovo narratore viene attivato. E, nel confronto con se stesso e con i propri infiniti paterni, il paziente non potrà che imparare a riraccontarsi da una nuova prospettiva. Una prospettiva che lo rende sempre più simile a se stesso. A come è veramente. Nell’infinito e prezioso dialogo con la propria profondità.

Inconscio collettivo: un ultima immagine.

Viene a questo punto da chiudere questo lungo articolo con un’ultima immagine.
Sappiamo tutti infatti che, nella Bella e la Bestia, l’intera trama s’intesse intorno a un oggetto magico: una rosa incantata che, con i suoi petali e la sua luminosa aura rosea fa da cornice e, allo stesso tempo, da “timer”, allo svolgersi dell’intera vicenda amorosa. Ebbene, a proposito della rosa, vorremmo chiudere citando un autore che del dialogo tra mondo interno e mondo esterno ha fatto l’emblema della sua vita.

Ti vedo, rosa, libro socchiuso,
così pieno di pagine
di gioia centellinata
che mai si leggerà. Libro-mago
che si apre al vento e che può leggersi
ad occhi chiusi…,
da cui farfalle escono confuse
di avere avuto quelle stesse idee.

Per Rainer Maria Rilke la poesia non poteva che essere esperienza interiore della realtà, condensata in parole che suonano più come evocazioni. Simboli attraverso i quali lasciar esprimere l’ineluttabile e innata condizione esistenziale dell’essere umano: in perenne tensione verso un assoluto che, a sua volta, tende verso l’incarnazione.

Conclusioni:

L’immaginazione, per lui, infatti, come l’arte sua derivata, non è se non un mezzo espressivo al servizio di quanto in noi esiste di più forte. Sempre essa rappresenta il ponte costantemente gettato tra quel che per noi è “dicibile” e quel che è “indicibile”.

 …ognuno di noi, dalle esperienze più elementari a quelle più elevate, dai suoi pensieri più distinti alle sue notti più popolate da sogni, conduce un’esistenza immaginativa. Quanto più ci allontaniamo dal controllo della coscienza, quanto più sprofondiamo nella sopraffacente oscurità dell’anima, tanto più possiamo riconoscere il poeta che è in noi, il poeta che è in ciascuno…
È soltanto il poeta dentro di noi a impedire che crollino i ponti che egli ha costruito tra la ragione, alla quale giustamente ci educhiamo con crescente lucidità, e il fondo sul quale riposano tutti gli esseri viventi privi di tale ragione; quei ponti che attraversiamo di continuo, senza magari prestarvi attenzione. E questa parte di talento creativo della natura umana non è soltanto patrimonio interiore di ogni individuo sano; essa si conserva fino nelle situazioni più sconfortanti, quando un’infermità mentale sembra strapparci da noi stessi, farci smarrire in un intrico di pulsioni dal quale solo una chiarificazione perfettamente cosciente potrebbe aiutarci a uscire. Proprio in queste situazioni può accadere che, trascinati nell’abisso, ci accostiamo a quelle vie lungo le quali l’artista trae la sua opera dal profondo portandola alla coscienza.
(Lou Andreas-Salomé _ Rainer Maria Rilke. Un incontro)

Dott.ssa Michela Bianconi

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